“Periodo di prova” in Italia : cambiamenti all’orizzonte?

La prova è un elemento accidentale del contratto di lavoro. Essa offre la possibilità sia al datore di testare per un lasso di tempo la capacità del lavoratore di svolgere i compiti che gli sono stati assegnati al momento dell’assunzione sia a quest’ultimo di valutare la prestazione, le modalità di svolgimento della stessa e l’ambiente di lavoro in cui è necessario relazionarsi.

La normativa Italiana è sempre stata molto più rigida rispetto a quella dell’Unione Europea.

Lo schema del Decreto Legislativo all’art.7, approvato il 31 marzo 2022  dal Consiglio dei ministri e inviato alle camere per acquisire il parere, mira a recepire la direttiva UE 2019/1152 che tra i vari punti in materia di diritto del lavoro era intervenuta anche in merito alla prova nei contratti a tempo determinato.

La direttiva comunitaria all’art.8 stabilisce in linea generale che il periodo di prova non possa avere una durata superiore a sei mesi. Tuttavia contempla delle situazioni, giustificate dalla natura dell’impiego o concordate nell’interesse del lavoratore, tali per cui la durata dello stesso può essere pattuita dalle parti con una durata superiore ai sei mesi.

Nel caso in cui le parti invece intendano rinnovare il contratto anche a distanza di tempo per la medesima mansione, il rapporto non può essere soggetto ad un nuovo periodo in quanto si presume che le parti abbiano già accertato la reciproca convenienza al rapporto di lavoro (art.2096 c.c.).

La direttiva prevede inoltre, che le giornate di assenza del lavoratore, dovute a malattia o congedo, non siano computate nel periodo di prova. Ne consegue che esso debba essere allungato in modo proporzionale.

Infine la direttiva specifica che nei rapporti a termine inferiori ai 12 mesi la prova debba essere riproporzionata in base alla durata del rapporto.

Il legislatore italiano mantiene una visione più rigida rispetto a quello comunitario, definisce infatti in modo perentorio una durata massima del patto di prova non superiore a sei mesi. Tuttavia, la Cassazione con sentenza 9798/2020 ha stabilito la possibilità, in rapporto alla particolare difficoltà della mansione e con onere della prova a carico del datore di lavoro, di prevedere una durata del periodo di prova superiore.

A differenza della direttiva del 2019 dove il legislatore comunitario parla, riguardo al riproporzionamento del periodo di prova, di assenze in senso generico abbracciandone qualsiasi tipo, il legislatore italiano subordina tale situazione a particolari tipologie di eventi. Lo schema del Decreto Legislativo specifica infatti quali siano le assenze da prendere in esame per l’estensione in modo proporzionale del periodo di prova. Gli eventi presi in considerazione sono la malattia, l’infortunio, il congedo obbligatorio di maternità e di paternità. Da tale schema sembrerebbero escluse le assenze per ferie, permessi legge 104 o ulteriori assenze previste dalla contrattazione collettiva.

Con lo schema del Decreto Legislatore il patto di prova nel contratto a tempo determinato potrebbe essere fonte di criticità. Fino ad oggi nel nostro ordinamento mancava una legge a disciplinare tale aspetto, pertanto è intervenuta la giurisprudenza che più volte ha ribadito il principio di proporzionalità in base alla durata del contratto di lavoro a tempo determinato. Con lo schema del nuovo Decreto invece si stabilisce una proporzionalità in base alla durata del rapporto di lavoro e alle mansioni che il lavoratore andrà a svolgere in base alla natura dell’impiego.