Dirigenti appesi a un filo

“Non so quanto ancora potrò sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile”. Tanto è bastato, secondo la Cassazione nell’ordinanza 2246 di gennaio 2022, a qualificare la nozione di giustificatezza e legittimare la risoluzione del rapporto di lavoro.

La querelle nasce da un’email con la quale il dirigente lamentava un tradimento della propria fiducia e buona fede nel suo rapporto di lavoro con la società datrice. Da qui, la decisione datoriale di risolvere il contratto per giusta causa. Quest’ultima è stata poi disconosciuta in primo grado pur confermando la legittimità del licenziamento, poi confermata in appello e dalla Corte Suprema.

Nell’ambito del rapporto dirigenziale, il concetto di giustificatezza non coincide con quello di giusta causa o di giustificato motivo. La sua fonte non è legale ma di natura collettiva e di conseguente elaborazione giurisprudenziale.

La nozione di giustificatezza non richiede una verifica di specifiche condizioni bensì si caratterizza su di una valutazione globale che escluda l’arbitrarietà del recesso che deve essere motivato da ragioni non discriminatorie, oggettive e accertabili o comunque tali da turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro. Una connotazione così ampia della nozione di giustificatezza, ha portato la Corte a respingere l’assunto difensivo secondo cui un singolo episodio non potesse bastare a fondare il licenziamento o ancora, che tale comportamento fosse una reazione a uno specifico accadimento.

Per quel che riguarda più in generale il diritto di critica che ha un lavoratore nei confronti del suo datore, la Cassazione ne ha più volte statuito alcuni principi guida. Infatti, il diritto di critica non può trasformarsi in un illecito disciplinare e deve rispettare il presidio della dignità della persona umana. In altri termini deve conformarsi ai canoni di correttezza.